lunedì 9 aprile 2012

Riflessi di scrittura 2012 - A me piace prendere il sole senza niente addosso

A me piace prendere il sole senza niente addosso. Non ci trovo niente di male. Il giardino è casa mia, in fondo. Quella mattina era molto ventilata, ma non m'importava. La carezza dello scirocco sulla pelle nuda è eccitante. Ero nella mia posizione preferita, a pancia in giù, con un cuscino sotto la testa e una musica dolce nelle orecchie. Sonnecchiavo, e in un primo momento mi parve fosse un'immagine creata dal dormiveglia. Quando ho percepito che la sua presenza era reale, lui era già molto vicino. Avrà avuto vent'anni, ma con quell'aria imbarazzata sembrava più giovane. Il suo aquilone, di cui stava riavvolgendo il filo, era atterrato proprio sul mio fondoschiena, e lui non aveva il coraggio di riprenderselo. Alla fine lo trovò.

Aprii gli occhi: "Cosa stai facendo?"
Si irrigidì. Rabbrividiva.
"Mi scusi… volevo soltanto…"
"Questa è proprietà privata!"
"Lo so, ma…"
Mi voltai verso di lui, di scatto.
"Vattene o chiamo i cani!"
Non si mosse. Restava lì a guardarmi, muto, con l'aquilone in mano.

A un tratto abbassò il capo, l’espressione colpevole sul viso, prese una grossa boccata d’aria come se volesse dirmi qualcosa e poi la buttò fuori senza emettere un suono.

Lo studiai attentamente, sollevandomi su un gomito senza curarmi della mia nudità.
“Allora, mi hai sentita? Hai intenzione di rimanere qui ancora per molto?” gli chiesi, cercando di scuoterlo da quel torpore.
Lui sollevò gli occhi su di me, arrossendo maggiormente, e provò a balbettare qualche parola.
“Chi sei? Come sei entrato?”
“Io…veramente…”
Aveva le gote arrossate, i capelli scompigliati dal vento e l’intenzione di rimanere lì, immobile.
Stanca di quella situazione, mi portai due dita alla bocca e feci per fischiare, quando il ragazzo si voltò e, senza dire una parola, cominciò a correre.
Scomparve dietro una siepe prima che potessi davvero chiamare i due cani.
Tornai a poggiare la testa sul cuscino, sperando di potermi riaddormentare, ma continuava a tornarmi in mente il volto di quel ragazzo e il cicaleccio proveniente dagli alberi iniziava a infastidirmi.
Mi alzai dalla sdraio, raccolsi le mie cose e tamponai alcune gocce di sudore che si erano formate nell’incavo dei seni.
Quando entrai in casa mi stropicciai gli occhi, aspettando che si abituassero alla differenza di luce.
Andai in cucina e guardai l’orologio appeso sopra il frigorifero.
Erano le dieci e mezza.
Con un gesto ormai automatico, presi il flaconcino bianco che era appoggiato sul tavolo, mi rovesciai un paio di pillole sul palmo della mano e le misi in bocca, sforzandomi di deglutire.
Il mio medico diceva sempre che se le avessi prese, quasi mi sarei dimenticata di essere malata.
E invece dimenticavo tutto, anche giornate intere della mia vita, a volte anni, ma continuavo a ricordare quella malattia che si mangiava i miei ricordi.
Guardai verso il frutteto attraverso una vetrata: le prugne dovevano ancora maturare, ma le albicocche avevano già assunto una tonalità intensa di arancione. Decisi che le avrei raccolte nel pomeriggio.
Notai, poi, una macchia scura in mezzo al verde degli alberi e aguzzai la vista per cercare di capire cosa fosse.
Un aquilone si stava sollevando in aria, non avevo più dubbi.
Emisi un fischio debole e dopo pochi secondi uno dei cani apparve tra le siepi.
“Perché sei ancora qui?” chiesi, una volta arrivata di fronte a lui.
Il cane ringhiava, i denti bianchissimi in mostra che quasi si confondevano con il pelo chiaro.
Il ragazzo non si aspettava di vedermi e, forse, era spaventato dalla mole dell’animale, in posizione d’attacco di fronte a me.
“Mi sono perso.” disse a un tratto, con un filo di voce che feci fatica a percepire.
“Non è vero, se sei entrato saprai anche da dove uscire.”
Non rispose, rimase lì, come poco prima, a fissarmi.
“Cosa vuoi da me?” gli chiesi, conscia che probabilmente non avrei ottenuto alcuna risposta.
“Voglio solo aiutarti. Ti prego, lascia che ti riaccompagni a casa.” disse, allungando una mano verso di me.
Mi scostai, spaventata da quel gesto, e feci un cenno al cane sperando che lo attaccasse subito e me lo togliesse di torno.
L’animale, però, smise di ringhiare e si mise in posizione seduta, sotto lo sguardo vigile dello sconosciuto.
“Mi dici che cosa vuoi?” urlai ad un tratto, sperando di spaventarlo.
Il ragazzo riavvolse il filo dell’aquilone con pazienza.
“Non ti ricordi di me, vero?”
Poi capii e sospirai rassegnata: era successo di nuovo.
Avevo di nuovo dimenticato chi fosse, dimenticavo sempre tutto. Si accorse che l’avevo riconosciuto e asciugò con una mano le lacrime che scivolavano sul mio viso.
“Mamma, torniamo a casa.”

di Milazzo Marian Letizia  Liceo scientifico di San Benedetto del Tronto
Racconto vincitore del  Premio della Giuria Tecnica e del Premio speciale giovani Asd S. Giuseppe

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