martedì 24 febbraio 2004

Io, registro




Anche il mio tempo è concluso. Non sono affetto da malattie incurabili né ottenebrato da manie suicide, sarebbe per me impossibile sia l’uno sia l’altro, è che i miei giorni sono stabiliti sin dall’origine, sin da quando sono stato collocato nel mio universo, la scuola. Non sono nemmeno fatalista, più semplicemente vivo la pienezza della mia esistenza in circa trecentotrenta giorni. Senza sorprese. Non esiste l’ulteriore o perlomeno non mi è concesso. Duro un anno, quindi è per me inutile l’inquieto affaccendarsi per scampare l’attimo fatale, mi sono risparmiate le ansie e le angosce legate all’impossibilità di conoscere il momento del congedo, giovinezza e vecchiaia non mi appartengono. Qualcuno mi direbbe che sono, per questo, fortunato, ma a me tutto ciò non regala felicità come potreste pensare.  La mia esistenza è regolata dal succedersi dei quadrimestri, la mia vita è scandita dal suono della campanella e il mio compito, nel frattempo, è quello di tenere memoria dei fatti, almeno per un po’. Ricordo ancora quando venni alla luce con la stampa litografica e successiva rilegatura. Il signor Spiaggesi mi prese tra le mani, odoravo d’inchiostro fresco, e sfogliandomi quasi mi lussò una pagina. Una crepa sottile e profonda si aprì sul mio dorso segnando per sempre la mia brossura. A nulla valsero le cure amorevoli di Nando, il tipografo taciturno e appassionato che si adoperò con colate calde di colla gelatinosa. Il mio destino è stato, da allora, quello di un prodotto fallato, ceduto sottocosto. E in fondo mi è andata bene. Al mio compagno, nato monco di un fascicolo, è toccato il macero. È tornato alla originaria pasta di cellulosa prima ancora di vedere apposta sulle sue pagine una sola assenza, un solo voto o una nota sul comportamento. “Cellulosa eri e cellulosa tornerai”, gli disse con rammarico il buon Nando, sempre riluttante a disfarsi di una sua creatura, ma altrettanto veloce a sfoggiare, come lampo nel buio del suo laborioso silenzio, una fulminante battuta. Seppur fallato, fui ritenuto idoneo a svolgere la mia funzione e finii sul tavolo dell’archivio di un’anonima scuola di provincia. Del viaggio, chiuso in un cartone sigillato, ricordo ben poco, mentre ho ancora presente l’opacità polverosa della stanza che mi accolse, pervasa in ogni angolo, contro ogni legge fisica, da un malinconico senso di abbandono. Nell’archivio semibuio, stantio e colmo di vecchie scartoffie, ho soggiornato, per oltre un mese, con i registri che avevano, come me oggi, concluso il loro ciclo. Le foderine sgualcite, segnate da rughe profonde fino all’anima di cartone, mi fecero comprendere la fatica alla quale sarei stato consegnato. La forzata convivenza, tra vecchi e nuovi registri, rappresenta l’unica occasione per apprendere e trasmettere il vissuto che non è stato possibile memorizzare con inchiostro indelebile sulle apposite sezioni. Sfumature di vita non richieste, non comprese nel “processo formativo degli alunni”. Il luogo dove le piccole cronache si fanno storia da conservare nei quadrimestri a venire. I vecchi registri giacevano accantonati alla rinfusa già da qualche giorno quando noi, appena arrivati, fummo impilati accanto a loro, a formare due gruppi ben distinti: a destra, pericolosamente sospesi sul bordo del tavolo, quelli a uno o a due fascicoli, destinati ai docenti assegnati a più scuole; accanto, in posizione più sicura, quelli a tre. A causa del difetto di fabbricazione che mi aveva reso fallato e cagionevole, mi adagiarono di traverso, a mo di architrave, tra la prima e la seconda colonna, leggermente inclinato verso i registri a due fascicoli. Questi infatti, essendo meno numerosi di quelli a tre, formavano una pila più bassa. Una volta che la porta fu chiusa, un Piaggesi rosso porpora a tre fascicoli, rivestito da una elegante copertina trasparente, sospirò: “meno male che è finita, non vedevo l’ora di essere riconsegnato”. “Non lamentarti troppo!” gli fece eco un consimile a due fascicoli. “Guarda come mi ha ridotto il professore di Matematica, ho persino due macchie di caffè nella sezione delle assenze e una ustione perforante di tre pagine sullo spazio riservato alla valutazione quadrimestrale” e, dopo una breve pausa, aggiunse “l’esimio ignorantone soleva utilizzarmi come tovaglia durante la ricreazione”. In effetti chi parlava mostrava un aspetto veramente miserevole. Un terzo registro, utilizzato dalla professoressa di Biologia, si lamentò di essere stato affidato a un’accanita fumatrice: “sono impregnato di nicotina fino all’ultima fibra della cucitura, persino l’inchiostro che riporta come svolto l’argomento interdisciplinare - I danni causati dal fumo -  si è quasi vaporizzato in una fetida nuvola biancastra. Meno male che la cellulosa del nostro organismo è immune a metastasi e carcinomi come capita alle cellule, quelle vive, altrimenti sarei finito già da un pezzo a striscioline nel bidone dell’apposita raccolta”. Ero stato assemblato con l’idea che il buon esempio fosse il migliore insegnante, ma già dopo neanche un giorno di vita nella scuola, la prima certezza iniziava a vacillare. “Il fumo, il fumo …” mormorò qualcuno dal fondo della pila “chiedono il rispetto delle regole e poi? Il mio Pregiatissimo tutore, cultore del dolce far niente, ha trascorso buona parte del suo tempo a trastullarsi al cellulare”. Il docente al quale era stato affidato insegnava Fisica. Era un tipo originale, barbetta brizzolata e cravatte colorate. La sua prima preoccupazione, secondo quanto asserito dal suo registro, fu quella di assicurarsi la password per l’accesso a internet. “Ho pensato che fosse uno di quei maniaci delle TIC o ITC o come diavolo si chiamano” ci disse il Piaggesi “e ho sperato di essere il primo della scuola a registrare qualche nuovo argomento, uno di quelli indicati con gli anglicismi che vanno tanto di moda come - cooperative learning - o - E learning - e invece” concluse amaramente “l’unica parola straniera che porto scritta tra le mie righe è pure sbagliata, Amper invece di Ámpere! Altro che informatica! Il personaggio è riuscito a storpiare anche il nome del grande fisico e matematico francese”. Nei giorni successivi ognuno disse la sua. E venne fuori che c’era chi era rimasto intonso sino all’ultima settimana, chi era stato riempito di frasi insensate, chi aveva registrato voti non corrispondenti a rilevazioni oggettive e chi note sgrammaticate sul comportamento. Quei segni, destinati alla storia personale di ciascun alunno o, per usare il gergo in uso da queste parti – curricolo -, rappresentavano il risultato di un approccio sbrigativo e superficiale, di un umiliante e offensivo - tanto per fare -. “Vi invito caldamente a registrare tutto” raccomandava l’esperto vice “L’importante è scrivere nel modo giusto, questi genitori hanno il ricorso facile e, capite bene, …. in quel caso scripta manent ..”. Il giorno dopo arrivò il bidello tuttofare che provvide alla tumulazione dei vecchi registri, riponendoli in anonimi scatoloni nei quali avrebbero riposato per dieci anni scolastici ancora. Poi sarebbe loro toccato il macero.
Fui affidato a un insegnante di lettere prossimo alla pensione. Il malefico bidello ebbe la spudoratezza di vantarsi, in seguito, di aver assegnato un registro fallato a un docente tarato. Il professore, infatti, era rimasto vedovo nel primo quadrimestre dell’anno scolastico precedente e da allora era diventato introverso e triste. Non che prima fosse un’allegra compagnia, ma almeno, seppur di rado, si permetteva con i colleghi qualche battuta garbatamente spiritosa che lasciava trasparire una ironia sottile e intelligente. Da quando poi la moglie lo aveva lasciato, era ritornato perfettamente coerente alla sua misantropica indole. Sembrava quasi che nella disgrazia avesse trovato la giusta motivazione per mettere a tacere l'unica voce allegra, ma dissonante, che da qualche angolo remoto della sua coscienza reclamava una seppur minima attenzione. Era un omone alto e massiccio con due braccia lunghe ben oltre il limite vitruviano. Un tipo, ebbi modo di constatare, che soleva assentarsi tra i pensieri, anche in classe durante la lezione. Nonostante ciò godeva di una solida e indiscutibile autorevolezza ed era benvoluto da quasi tutti i suoi alunni. Spiegava gli argomenti agitando le mani con gesti rapidi, ma delicati, quasi fosse un direttore d’orchestra. La pantomima più frequente prevedeva il sollevamento della mano destra con le dita raggruppate verso l’alto, come a stringere l’ineffabile concetto, la rapida discesa verticale e l’arresto brusco ma mai definitivo. La sua voce baritonale tradiva spesso l’emozione causata dal perdersi tra perifrasi e parafrasi dei suoi autori preferiti, e ce n’erano tanti, di ogni epoca e corrente letteraria. Ogni tanto, in classe, si lasciava andare a un’ilarità puerile, adeguata, a suo giudizio, all’animo semplice dei suoi ragazzi, ma poi subito tornava serio e più triste di prima. Era come se la sua allegrezza fosse contingentata, provvista di un quantitativo ben definito di felicità che si assottigliava ogni volta che ne lasciava uscire un po’ fuori se stesso. Il professore mi ha trattato con estremo riguardo, trascritto con cura e precisione. La sua grafia, a tratti infantile, ridondante e quasi barocca, con le aste delle consonanti inclinate leggermente a sinistra, trasmetteva sicurezza ed eleganza. Avevo l’impressione che l’inchiostro rimanesse mobile, non ancorato alle mie pagine, suscettibile quindi di oscillare sul foglio con il solo procedere spedito dello scrivere o con il tenue refolo prodotto dal voltare pagina. Prima di iniziare la quotidiana registrazione, lisciava delicatamente, con il palmo della mano, la superficie immacolata della mia anima. Una carezza d’incoraggiamento come quelle che ogni tanto dispensava sulla nuca degli allievi. Poi cominciava con la biro di cui avvertivo appena il tocco delicato. La penna che usava gli somigliava un po’, mai una parola di troppo, mai una sbavatura sopra le righe. Era orgogliosa della sua sfera. “Di dimensione ottimale” mi disse la prima volta “non temere, non incide né imbratta”. Una mattina, adagiata di traverso sulla pagina, mi confidò che iniziava ad avvertire un certo senso d’inutilità riferito non tanto a se stessa, quanto alla sua categoria. “Oramai ci usano solo per spuntare la lista della spesa” ebbe a lamentarsi “neanche più per un numero di telefono, per quello c’è il cellulare. Un tempo eravamo una protesi, un tutt’uno con chi ci adoperava al punto che - penna felice - o - buona penna - erano le metafore più ricorrenti per indicare il letterato capace. Oggi ci sono i file ... “ e pronunciando con un perfetto inglese la strana parola, ammutolì. Una mattina, però, il professore commise un errore che mi costò caro. Una imprecisione lessicale fu spazzata via sfregando a lungo, con il lato rosso di una perfida Pelikan, la mia tenera cuticola. Ancora avverto il bruciore dell’abrasione. E meno male che l’inchiostro se ne andò senza troppe storie. Era, per fortuna, un tipo poco resistente. Non oso pensare cosa sarebbe potuto accadere se fosse stato necessario il lato blu della medesima temuta gomma - che nel frattempo mi osservava con un ghigno inquietante.
Senza grossi sussulti, l’anno scolastico è davvero terminato. Prova tangibile ne sono le numerose firme apposte per rivendicare la paternità dei giudizi espressi e i lunghi tratti di penna sulle mie poche pagine inutilizzate. E ho partecipato, poco giorni or sono, allo scrutinio finale. A essere sincero, ne sono rimasto deluso. Pur apportando il mio indispensabile contributo, sono rimasto ai margini della scena. Tutta la riunione collegiale ha ruotato attorno a due strani personaggi: notebook e file. Che tipi! Non si sono neppure presentati. Il primo si dava un sacco di arie, tutto pieno di sé, mi ha rivolto solo qualche raro bip e uno sprezzante sfavillio di scritte e colori riflessi sulle lenti degli occhiali dell’atletico professore di Educazione fisica. Una continua, narcisistica ostentazione della sua molteplice natura: meccanica, elettrica e Dio solo sa cos’altro. I file non li ho neppure visti. Credo che siano una specie di entità metafisica. Gli insegnanti, in una sorta di trance mediatica, non facevano che evocarli ed essi, mi è sembrato di capire, si manifestano, in forma di testo scritto, tra le luci del notebook. Allora ho compreso l’apprensione e il senso di abbandono confidatimi dalla vecchia, cara penna a sfera. A pensarci bene la cosa preoccupa un po’ anche me. Contrariamente agli anni passati, ancora non si sono visti i registri novelli e l’altro giorno l’agente della Piaggesi, dopo i soliti untuosi saluti, ha iniziato a illustrare, col suo fare navigato, tutti i vantaggi del formato digitale. Non ci ho capito un accidente, ma sono sicuro di non essere stato l’unico. Avrei voluto farvi vedere lo sguardo dei presenti, tristemente smarrito tra cloud, file e link in rete. Nonostante tutto, è stato siglato un accordo. “Si vedrà, si vedrà” ripeteva al professore di Educazione fisica, ansioso di sapere come, nel nuovo formato, fossero riprodotte le formulazioni che io accoglievo in modo così chiaro (bontà loro, per carità!). “ Le riporteremo per quel che la tecnologia ci permette ma, capite bene, il nostro prodotto è venduto in tutta Italia e noi mica possiamo stare dietro a ogni singola richiesta. Pensate, in una scuola che ha acquistato il nostro registro, i docenti erano entusiasti di fare tutto il lavoro pigiando due soli tasti e riferendosi a due soli voci “. “ Ma, gli obiettivi, i sotto obiettivi, le competenze….dove sono? “ provava a replicare un disorientato docente, volgendo lo sguardo, in cerca d’aiuto, verso i colleghi e il Dirigente. Io mi divertivo a seguire il dialogo, di cui capivo ben poco - ma da cui traevo la certezza che la pensione mi avrebbe fatto bene, nonostante il fardello di punti interrogativi che si portava appresso su ciò che rimaneva della mia breve vita futura. Li lasciai lì a parlarsi come fra sordi e volai, col pensiero, fuori dalla finestra dove si adagiava uno splendido tramonto striato di rosa. Rimase di me, su un tavolo, un po’ discosto vicino a un portaombrelli, un mucchietto di fogli stropicciati e ricolmi di voti e annotazioni. Di vita almeno vissuta, potrei dire adesso con orgoglio, allontanandomi da quelle querule voci e posandomi adagio su una soffice nuvola, ma preferisco tacere e chiudere gli occhi.


24 02 2014  Io, Registro  è un racconto di ld  








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