lunedì 5 gennaio 2004

Giallo D'Avola di Paolo Di Stefano



 Non è certo con un romanzo di genere che Paolo di Stefano ha voluto confrontarsi nella sua ultima opera, “Giallo d’Avola”. Nonostante il libro si autodichiari "giallo" sin dal titolo e sia pubblicato da Sellerio nella stessa veste grafica dei romanzi di Camilleri, sembra invece di trovarsi di fronte ad un'opera più complessa nella cui elaborazione sono evidenti l'interesse storico e sociologico dell'autore e il legame personale ed emotivo coi luoghi e il tempo della vicenda reale narrata: la Sicilia degli anni cinquanta.
E' l'autore stesso a dirci, durante la presentazione (*), che la spinta
determinante ad occuparsene nasce dal desiderio di riconnettersi alla propria infanzia, vissuta per i primi tre anni proprio ad Avola, paese d'origine della propria famiglia e teatro della vicenda di "sangue" che coinvolse la famiglia Gallo.
Paolo Di Stefano, allora bambino di pochi anni, ne sentì parlare a

lungo genitori e parenti, anche dopo che la sua famiglia aveva lasciato la Sicilia per la Svizzera: la conoscenza dei luoghi e dei protagonisti sollevava in casa discussioni e prese di posizione contraddittorie giustificate da tentativi di spiegazione e ipotesi destinate a restare a lungo prive di conferme. La lunga storia processuale del "delitto" infatti, e il suo sorprendente epilogo, costituiranno un precedente giudiziario tale da modificare la giurisprudenza applicata in casi analoghi.
Nell'immediatezza il delitto fu un evento attorno al quale si aggrumarono, come intorno ad altri "famosi" delitti di quel periodo, le suggestioni, le curiosità, lo spaventato stupore di gente allora in gran parte semplice e concreta, per la quale interrogarsi e prendere partito in queste vicende era anche un modo di esorcizzare e accantonare la fatica e l'insicurezza di un presente duro e in un paese in piena e tumultuosa trasformazione.
L'Italia era già incamminata sulla strada del "miracolo economico", ma nella Sicilia del 1954 e anche in molte altre zone arretrate del paese, gli strumenti linguistici e culturali in possesso della popolazione, ancora in gran parte analfabeta, erano pochi e legati a forme arcaiche e rituali di lettura del mondo. In più i fatti avvennero e furono elaborati all'interno di un contesto, quello siciliano, connotato da modalità relazionali e gerarchie di valori in base alle quali tacere, mentire o confondere poteva essere più semplice e meno rischioso che raccontare il vero. La vicenda viene raccontata in forma di romanzo dopo un lunga fase di ricerca dell'autore (iniziata nel 2001) dentro la considerevole mole di documentazione (processuale, giornalistica e testimoniale) prodotta nei sette anni attraverso cui si andò svolgendo ed oltre. Lo sguardo dell'autore, pur estremamente attento e analitico nel mostrarci un quadro in cui ogni personaggio principale o secondario e perfino ogni comparsa trovano il loro ruolo in equilibrio con gli altri, sembra scomparire in un' impersonalità che lascia tutto lo spazio alla forza degli eventi e dei personaggi che li animano. Ma questo, il trascinarci dentro una storia come se fossimo lì, in un altro tempo e in altri luoghi dal nostro, è proprio il grande merito di una scrittura sapiente, come è certamente quella dell'autore, che inoltre riesce a raccontare tirando fuori tutta la sua atavica sicilianità dalla quale, in realtà, si è precocemente distaccato nella sua vita trascorsa in un contesto culturale completamente diverso da quello d'origine. Ne sono testimonianza i tratti fortemente siciliani della lingua utilizzata nella narrazione, dove si mescolano con naturalezza le varie "lingue" (dialetto, italiano dialettale, forme ibride) con le quali si esprimono personaggi a volte assai distanti culturalmente tra loro, e che si colgono anche nella sintassi delle frasi e nel modo di osservare e descrivere. C'è da rilevare come sempre più di frequente la letteratura prenda a prestito storie reali per raccontare, attraverso di esse, la verità di una condizione umana che gli eventi nudi da soli non possono restituirci. C'è nel gesto dell'indagare e narrare ciò che è davvero accaduto, immaginando e descrivendo ciò che non si è potuto vedere, qualcosa capace di renderci partecipi di eventi da cui in realtà siamo e resteremo lontani: c'è quasi da chiedersi se la realtà più che essere l'arida cronaca quotidiana dei fatti e dei gesti, non sia invece nei pensieri che li accompagnano, li spiegano o li suscitano restando spesso oscuri. Presupposto del successo di questa azione narrativa è l'uso consapevole della lingua, strumento che, prima che per raccontare, è indispensabile usare per comprendere, per "entrare" dentro una storia che è davvero accaduta e che vogliamo indagare e interrogare. Paolo Di Stefano ci mostra in questo libro di possedere la "lingua" per comprendere e raccontare, quella che gli ha consentito di condurci, in poche pagine, dentro il dramma che si consumò in una ruvida e montuosa contrada della Sicilia meridionale dell'ottobre del 1954 trascinando nella tempesta le vite dei suoi protagonisti.




di Maria Teresa Rosini


( * ) Paolo Di Stefano ha parlato del suo libro"Giallo d'Avola" sabato pomeriggio 7 dicembre 2013  all’Auditorium comunale di San Benedetto del Tronto conversando con Ettore Picardi. L'evento è stato organizzato dall'Associazione "I luoghi della Scrittura" in collaborazione con la Libreria "La Bibliofila".

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